L’Epifania che “tutte le feste porta via”, è la festa cristiana di manifestazione del figlio di Dio ai Re Magi e al mondo intero. Ereditata dall’oriente, è rappresentata da una vecchia donna arcigna, che vaga tra i cieli a cavallo della sua scopa tra la notte del 5 e il 6 Gennaio, per depositare i suoi doni all’interno di calze appese ai camini.
Le calze di oggi sono molto più ricche di quelle del passato. Mio nonno, il poeta ciociaro Antonio Viti, ha riportato in una sua poesia dialettale la descrizione della Epifania della sua infanzia. Bambini abituati a vivere nella miseria, attendevano con estremo entusiasmo la mattina della Befana, per poter scoprire il contenuto delle loro calze. Il massimo che ci si poteva aspettare era un fico secco, una ciambellina, un pezzo di panpepato o una testa di aglio. Il carbone o la cenere non erano tuttavia risparmiati, come se non bastasse la loro condizione di povertà per espiare le loro pene. Ma in quei tempi di miseria, l’Epifania voleva dire “doni” e non tanto importava la qualità del dono per chi era abituato a non avere nulla: “la cegnere iu carbone e ca patata, tutto era bono, tutto pure chello“. Se poi quell’annata era stata migliore, poteva saltare fuori dalla calza anche un fischietto, e allora si che era guerra aperta per la contesa del giocattolo!
Lucia Galasso, antropologa dell’alimentazione, ci racconta che “prima che si affermasse l’usanza di scambiarsi i regali natalizi, erano i Re Magi a consegnarli, in ricordo dei doni offerti al Bambino per eccellenza. Oggi assistiamo a uno sdoppiamento: Gesù Bambino porta i regali importanti mentre una figura non bene inquadrabile nella tradizione cristiana, la Befana appunto, porta piccoli doni e il carbone a coloro che non si sono comportati bene nell’anno appena trascorso. Tra i doni della Befana vi è la frutta secca, che tradizionalmente ha avuto valore sacro e apotropaico, tant’è vero che nel mondo romano era considerata un regalo di buon auspicio. Quanto al carbone, oltre a esprimere la valenza di energia latente e del fuoco celato, era considerato un amuleto, un vero e proprio dono magico che aiutava a cacciare malanni e disgrazie.
Frutta secca, giocattolini e piccola pasticceria, costituivano i regalini della vecchiarella.
In Toscana troviamo i befanini, biscotti preparati appositamente per questa festa, che raffiguravano animaletti, fiori o pupazzetti. ma troviamo anche la “torta della befana“, detta il tordellone, a causa della sua forma a mezzaluna: una pasta simile al tortello o al raviolo tipica delle famiglie toscane. A Napoli, invece, è usanza mangiare l’ultima fetta della pastiera preparata per il Santo Natale. Nel Veneto, e zone limitrofe, troviamo la famosa pinza: una focaccia dolce rotonda e grossolana, che in realtà non è nient’altro che una polenta arricchita. Bepo Maffioli ce la descrive così: rozza, fitta, pesante (ecco da che cosa deriva il detto veneto “duro come una pinza” per indicare una persona testarda, caparbia). L’ingrediente principale era la farina bianca o gialla (un tempo anche grani meno nobili), messa a bollire con poco lievito nell’acqua con l’aggiunta di strutto, fichi secchi e uva passita. Veniva consumata con abbondati gotti di vino. Della pinza esistono molte varianti, dagli ingedienti più svariati: dalla zucca alle mele, dal brodo di cotechino alla grappa. A Vicenza la pinza viene chiamata “putana“, e viene fatta usando due parti di farina gialla e una di bianca, cotte in brodo di cotechino. A questo impasto si aggiungono ciccioli di maiale evitando così la presenza di burro e strutto. La pinza di tradizione contadina veniva avvolta nelle foglie di verza, e la si metteva a cuocere nel mezzo delle braci del rogo votivo che ardeva lento e alto durante la notte che precedeva il giorno dell’Epifania.
Altro dolce tipicamente associato all’Epifania è quello che in Francia viene chiamato la Galette des rois. In occasione di questa festività, mentre i bimbi venivano lasciti ai piccoli dolci e ai giocattoli, i grandi provvedevano a nominare il signore della festa, il “re della fava“, personaggio che si ricollega al Re dei Saturnali del Carnevale pagano. Costui veniva sorteggiato per mezzo di una focaccia nella quale si nascondevano due fave: una bianca e una nera. Diventava re chi trovava quella nera. Il re provvedeva così a chiamare accanto a sè la regina e dominava il banchetto festivo. Quest’uso era di moda qui in Italia fin dal Settecento, alla corte di Parma.
E al Sud a Roma questa festa è sempre stata particolarmente sentita. “Er giorno de Pasqua Bbefanìa, che vviè a li 6 de gennaro da noi s’aùsa a ffasse li regali” così scriveva Giggi Zanazzo circa ottant’anni fa in Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma “ma ppiù ddte tutti s’aùsa a ffaje a li regazzini […] oltre a li ggiocarelli, a questi, s’aùsa a ffaje trovà a ppennolone a la cappa der camino du’carzette, una piena de pastarelle, di fichi secchi, mosciarèlle, e un portogallo e ‘na pigna indorati e inargentati; e un’antra carzétta piena de cennere e ccarbone pe’ tutte le vorte che sso’ stati cattivi”.
Nella Capitale vi era l’usanza di lasciare, la vigilia del 6 gennaio, parte della cena dei bambini alla Befana, in particolare la ricotta perché lei era sdentata e doveva mangiare cibi che non si masticassero. Si diceva che la Befana abitasse a due passi da piazza Sant’Eustachio, in una fantastica via della Padella 2, e infatti in quei giorni di festa piazza Sant’Eustachio e piazza de’ Caprettai con le vie che vi confluivano si riempivano di bancarelle, dove si vendevano dolciumi, giocattoli e pupazzi della Befana talmente brutti da spaventare i bambini. Poi la fiera di Sant’Eustachio venne trasferita in Piazza Navona, e anche la Befana traslocò sull’altana di palazzo Doria Pamphili. Dov’è tuttora, tradizione carissima ai romani.”